Udienza

Memoria per l’udienza del 2.11.2010

nell’interesse della parte civile

ITALIA NOSTRA, con gli avv.ti Veronica Dini e Susanna Della Torre

In vista della discussione fissata per il 2 novembre 2010, la difesa della parte civile Italia Nostra Onlus ritiene di dover formulare alcune osservazioni in ordine alla contestazione di disastro ambientale sollevata dal Pubblico Ministero a carico di alcuni degli odierni imputati.

Il danno ambientale prodotto

1. La vicenda che Codesto Giudice è chiamato a valutare, ai fini del rinvio a giudizio degli imputati, si caratterizza per l’estrema gravità dei danni ambientali cagionati a un territorio assai vasto e, conseguentemente, per il pericolo cui è stata esposta la salute della popolazione locale.

Sebbene molto sia stato riferito e documentato, sul punto, nel corso dell’udienza preliminare, può essere utile richiamare in questa sede alcuni dati.

1.1. La contaminazione riscontrata riguarda quattro aree esterne allo stabilimento Montedison e il suolo sottostante lo stabilimento stesso. In estrema sintesi, possiamo affermare che le indagini hanno accertato quanto segue:

    • nella discarica Tre Monti (cd. mega-discarica) sono stati smaltiti ingenti quantità di rifiuti, provenienti, in gran parte, dall’impianto cloro-metani dello stabilimento Montedison. Ciò ha determinato una gravissima contaminazione da metalli pesanti, in particolare per i rifiuti contenenti mercurio e piombo, e da una moltitudine di composti organici clorurati. Posto che l’area interessata si estende, secondo stime finora eseguite, per 33.000 mq ed è profonda mediamente 4,2 m, il terreno inquinato è pari (almeno) a 138.600 mc, equivalenti a 194.040 tonnellate. L’impatto di questa massa di rifiuti sulle acque sotterranee è evidente: confrontando le analisi chimiche dei campioni prelevati dai pozzi piezometrici esistenti e realizzati per il controllo, le acque a monte della discarica (pozzo PZF5) hanno mostrato uno stato qualitativo sostanzialmente buono, mentre la massima concentrazione dei contaminanti organo-clorurati è stata rinvenuta in quelle nel piezometro PZF1, scavato immediatamente a valle del sito. Nel vasto e orrido panorama degli inquinanti ivi identificati con le analisi, richiamiamo l’attenzione (cfr. consulenza Di Molfetta e Fracassi e indagini dell’ARTA-Abruzzo) unicamente su quelle clorurate riconosciute cancerogene.Confrontando le concentrazioni massime rilevate con i limiti di legge (CSC= concentrazioni-soglia di contaminazione), queste le cifre dei superamenti: 1,1 dicloro etilene (conc. max 1490, CSC 0,05 29800 volte), esacloroetano (conc. max 518, CSC 0,05 10360 volte), tetracloroetilene ( conc. max 2803, CSC 1,1 2548 volte), tetraclorometano (conc. max 17, CSC 0,15 113 volte), tricloroetilene ( c. max 1017, CSC 1,5 678) tricloroetano (conc. max di 26 CSC di 0,15 173 volte) e cloruro di vinile (max rinvenuto 12,2, e con CSC 0,5 supera di “soli” 24 volte). Si tenga presente che tali superamenti non costituiscono una misura veritiera dell’impatto effettivo sull’ambiente, vale a dire di quello che, alla fine, va a computare l’impatto ambientale, bensì dei limiti sanitari fissati per tenere sotto controllo i rischi per la salute umana. Come noto, la bonifica ambientale prevede il complesso delle operazioni necessarie per ripristinare la situazione ambientale quo ante : nel caso specifico, posto che le sostanze xeno-biotiche individuate sono praticamente assenti in natura, il disastro ambientale contestato assume caratteristiche ancor più imponenti.

    • La discarica 2A, a monte dello stabilimento: qui sono confluiti i rifiuti dell’impianto cloro-soda e dell’impianto SIAC dello stabilimento Montedison, cui si deve l’elevata concentrazione di mercurio e piombo e quella lievemente inferiore di composti organici clorurati. Trattandosi di un’area di 12.000 mq, di profondità pari a 5,3 m, in questo caso il volume di terreno contaminato è pari ad almeno 89.0401 tonnellate. Si richiama che la classificazione della discarica come “2A” identifica impianti di smaltimento autorizzati per caratteristiche costruttive e di sicurezza idonee per rifiuti non tossico-nocivi (successivamente definiti dalla normativa “non pericolosi”), quali, ad esempio, i rifiuti inerti da demolizione, e che, pertanto, non potevano in nessun modo ricevere rifiuti ricchi di metalli pesanti e scorie chimiche clorurate.

    • Anche nella discarica 2B, posta a monte dello stabilimento industriale, sono stati smaltiti rifiuti diversi da quelli autorizzati, probabilmente provenienti dall’impianto cloro-metano, per un totale di 2.800 tonnellate. La classificazione in 2B, infatti, designava in base alla L.915/82, la destinazione a poter contenere rifiuti contaminati ma in misura lieve, e quindi non ancora “tossico-nocivi”.

    • Accanto alla discarica 2A è stata rinvenuta poi una discarica abusiva di circa 30.000 mq, profonda 5,5 m, nella quale sono confluiti ingenti quantitativi di rifiuti prodotti dallo stabilimento industriale. Anche in questo caso, le indagini preliminari hanno evidenziato contaminazioni da piombo e mercurio, oltre che da composti organici clorurati. Il terreno inquinato equivale a circa 231.000 tonnellate.

    • Non sono risultate esenti da contaminazione neppure le aree interne al perimetro aziendale, che risultano compromesse in almeno tre aree.

Nel complesso, l’Avvocatura di Stato ha calcolato che il volume di terreno contaminato è pari a 1.863.880 tonnellate e che il costo di smaltimento sarebbe di € 596.441,600, cui andrebbero aggiunti € 27.958,200 per l’immissione di terreno vergine.

Le cifre indicate, per quanto, evidentemente sbalorditive, non esauriscono i profili del danno che è stato cagionato all’ambiente e, attraverso esso, ai cittadini.

Questi dati, di per sé, non solo consentono, ma impongono di accertare i fatti denunciati e tutti i profili di responsabilità in capo agli imputati.

1.2. Per quanto riguarda l’inquinamento delle falde idriche e delle acque del fiume Pescara, poi, a solo titolo esemplificativo, si rammenta che le sostanze inquinanti rilevate sono (oltre che pericolose per la salute umana, come certificato dall’Istituto Superiore di Sanità), persistenti e dunque idonee a determinare un danno ambientale ingentissimo: per comprendere l’entità del fenomeno può essere utile fare riferimento all’esacloro-etano, la molecola di gran lunga più presente nelle discariche abusive oggetto del presente procedimento, rinvenuta nelle acque del fiume Pescara, alla foce (dai dati di monitoraggio dei fiumi dell’ARTA_Abruzzo),in concentrazione media pari a 0,43 microgrammi per litro (ossia 0,43 milligrammi per metro-cubo). Ebbene, considerando che la portata media annuale del Pescara alla foce è pari a 50 metri cubi al secondo, ciò significa che ogni secondo il fiume trasporta in mare 21,5 milligrammi di inquinante (0,43 x 50), il che equivale a 1.857,6 grammi al giorno (21,5 x 3600 secondi x 24 ore) e 678.024 grammi all’anno. Ogni anno, dunque, 0,7 tonnellate di esacloro-etano vengono sversate in mare.

Con lo stesso metodo empirico (ma significativo) è stato calcolato che, ogni anno, a causa dell’inquinamento prodotto dal complesso dei siti contaminati dallo stabilimento Montedison, vengono trasportati sino al mare:

  • oltre 3 quintali di dicloro-etilene (rinvenuto alla foce in concentrazione pari a 0,2 microgrammi/litro);

  • 1,6 quintali di tetra cloro-etilene (rinvenuto in concentrazione pari a 0,1 microgrammi/litro);

  • 1,6 quintali di trimetil-benzene (rinvenuto in concentrazione pari a 0,1 microgrammi/litro);

  • 3,9 quintali di dicloro-metano (rinvenuto in concentrazione pari a 0,25 microgrammi/litro).

1.3. L’apprezzamento dei dati menzionati deve essere effettuati, peraltro, alla luce delle ulteriori seguenti considerazioni. Vanno tenuti presenti, infatti, la vulnerabilità dei luoghi contaminati, l’estenzione della contaminazione e l’elemento temporale in cui l’inquinamento è destinato a perdurare:

  • Sulla vulnerabilità è emerso chiaramente come la discarica di Tre Monti si trovi in una sorta di “collo d’imbuto” naturale in cui si raccolgono e transitano le acque del ciclo idrologico di poco meno di un terzo dell’intero territorio regionale Abruzzese: dei fiumi (ed affluenti e sistemi sorgentizi) Aterno, Gizio, Sagittario, che drenano le acque provenienti da Campo Imperatore, dalla Valle Subequana, dall’altopiano delle Rocche, dall’altopiano delle Cinque Miglia. Tale collo d’imbuto, rappresentato dalle gole di Popoli, è attraversato non solo da acque superficiali, ma è altresì caratterizzato da un sottosuolo permeabile – costituito anche da grandi ED estese formazioni di rocce travertinose a dir poco “spugnose”, che consentono un flusso sotterraneo veramente imponente di falde idriche, sia superficiali che profonde. Tutto il corpo idrico così è stato colpito dall’inquinamento: dalla superficie alle profondità di circa 100 metri, alle quali sono state spinte le analisi delle acque dei pozzi come quelli di S. Angelo. Se si fosse voluto progettare ove posizionare sostanze tossiche per realizzare il maggior danno possibile all’ambiente idrico in Abruzzo, non avrebbero potuto trovare un luogo meno “efficace” di quello ove si dispiega la discarica di tre Monti. La comprensione di tale vulnerabilità, tuttavia, non richiedeva grandi competenze, essendo –almeno nei suoi caratteri generali- cosa nota, ma ciò non ha indotto ad alcuna effettiva prudenza gli attori che vi predisponevano la collocazione dei rifiuti chimici. Il disastro appare ancora più grave alla luce della relativamente recente istituzione delle Aree Naturali protette. Il sito della “megadiscarica”, infatti, si trova proprio sul confine tra due dei più grandi Parchi Nazionali italiani: quello del Gran-Sasso d’Italia-Monti della Laga e quello della Majella-Morrone. E’ noto che le aree di confine così dispiegate costituiscano “corridoi ecologici” per la fauna, e che la loro integrità e salvaguardia è importantissima per il raggiungimento dei fini posti alla base delle Direttive Europee (Dir. “Habitat”, S.I.C., Z.p.S) e della normativa italiana in materia di biodiversità e di difesa della natura (“Rete Natura 2000” e Parchi nazionali).

  • Sull’estensione dell’inquinamento, oltre a quanto detto, si sottolinea il coinvolgimento di un’intera vallata –la Valpescara- per oltre 50 km lineari, nel fiume, nelle falde idriche, nei sedimenti fluviali e che l’inquinamento diffonde in mare ove è in grado di produrre effetti anche a distanze a prima vista insospettabili.

  • L’elemento temporale, inoltre, fornisce un quadro ancora più preoccupante del disastro occorso. L’estensione delle aree fonte d’inquinamento, la loro posizione a ridosso di fiumi e falde, l’estensione del S.I.N. , la copiosità delle acque sotterranee coinvolte, la natura e la persistenza degli inquinanti, alcuni dei quali sono perenni –se non raccolti e trattati con sistemi tecnologici- lasciano presagire che anche se si attuassero tutti gli interventi possibili afferenti alla bonifica, dovranno passare decenni per vederne i primi risultati apprezzabili e molto di più per vedere la contaminazione risolta. Forse secoli, e forse il risultato del ripristino effettivo e definitivo non potrà mai essere pienamente colto.

2. Per quanto attiene al pericolo per la salute pubblica, l’Istituto Superiore di Sanità, all’uopo incaricato dal Ministero dell’Ambiente, ha espresso un parere tanto chiaro quanto allarmante, concludendo che:

  • «i siti nei quali sono stati conferiti in modo improprio rifiuti tossici per alcuni decenni, … hanno rilasciato nelle falde idriche molteplici sostanze pericolose per la salute;

  • a partire dagli anni ‘80, a valle di tali siti, è stato attivato il Campo Pozzi S. Angelo che per oltre due decenni ha contribuito a trasferire le sostanze inquinanti dall’acqua di falda nella rete dell’acquedotto Giardino;

  • la contaminazione della rete di distribuzione dell’acqua potabile è stata documentata anche ai punti di utenza diretta;

  • in relazione alle caratteristiche degli inquinanti rilevati e al prolungato periodo di contaminazione, si configura, a parere degli scriventi, un pericolo concreto per la salute umana».

3. Ciò posto, il pericolo per l’incolumità pubblica cui è stata esposta la popolazione abruzzese non può non essere valutato anche in relazione ai profili di avvelenamento delle acque pure contestati agli odierni imputati. Sul punto, si osserva quanto segue.

In relazione alle acque destinate al consumo umano, precedentemente al D.Lgs 31/2001 e a partire 25 dicembre 2003, data di effettiva sua entrata in vigore, si applicavano i limiti ed il disposto del D.P.R. 236/88 che prevedeva una concentrazione massima ammissibile (C.M.A.) per i composti organici totali, diversi dagli antiparassitari e prodotti simili, fissati complessivamente in 30 microgrammi/litro. Come hanno evidenziato i Consulenti della Procura, in tale parametro rientrano sicuramente i composti organici clorurati.

La tipologia e la frequenza dei campionamenti da effettuare per il controllo della qualità delle acque erano riportate rispettivamente nelle Tabelle A e B dell’Allegato II del predetto D.P.R. La norma prefigurava quattro diversi tipi di controllo: 1.Controllo minimo, 2. Controllo normale, 3.Controllo periodico, 4. Controllo occasionale. Secondo la norma i controlli più semplici e speditivi erano fissati con elevata frequenza temporale, e per le tipologie di analisi via via più costose ed impegnative, la frequenza era più diradata, anche perché le analisi previste erano riferibili a parametri poco comuni da rilevare come contaminanti in acque destinate al consumo umano. Per quanto riguarda la tipologia di controllo definita occasionale (C 4 ), che poi è quella che avrebbe consentito di svelare e di monitorare la presenza degli inquinanti nelle acque erogate nei rubinetti dell’area metropolitana Chieti -Pescara, la norma recita controllo C4 (occasionale) – sarà effettuato con la frequenza che le autorità sanitarie competenti, secondo le circostanze, riterranno opportuna.”.

Una nota alla Tabella A, inoltre, riporta che i parametri previsti nei controlli occasionali devono figurare, in tutto o in parte, quando a giudizio dell’autorità sanitaria competente, lo richiedano particolari condizioni locali connesse a fenomeni naturali e non.

Si deve rilevare che è esistito, da parte della autorità sanitaria cui competeva ( e compete ancora nella vigente normativa) il controllo, un atteggiamento omissivo dal momento che:

  1. la frequenza da stabilire il relazione a valutazioni da effettuare non possa essere intesa come frequenza zero (non è emersa, infatti, alcuna analisi di controllo occasionale C4)

  2. fin dal 1992 il P.M.I.P. della ULSS di Pescara aveva trovato sostanze organo clorurate nelle acque dei pozzi S. Angelo.

Inoltre, la miscelazione di acque contaminate dei pozzi S. Angelo con quelle pure dell’acquedotto del Giardino, era inammissibile in quanto i parametri analitici delle acque dei pozzi, in base al D.M. 25 ottobre 1999, n. 441, deponevano per l’esistenza di un sito gravato da contaminazione tale da essere dichiarato da bonificare, per cui era necessario il ripristino ambientale.

Del resto anche il vigente D.Lgs 31/2001 sancisce che sostanze potenzialmente in grado di inquinare l’acqua possono essere presenti, in tracce minime, solo se possono derivare dall’impiego di tubi di plastica nell’acquedotto (cloruro di vinile rilasciato da tubazioni in P.VC.) o dai residui delle operazioni di disinfezione delle acque con cloro (la legge sancisce che i responsabili della disinfezione debbano adoperarsi perché i residui della clorazione quali il cloroformio, bromoformio e dibromonetano siano in valori il più possibile bassi). Mai, quindi, la norma ha ammesso che l’acqua proveniente da sorgenti contaminate possa essere adibita al consumo umano.

Come già sostenuto dal Ministero dell’Ambiente, inoltre, non né lecito diluire acque contaminate con acque pure per assicurare il rientro all’interno dei limiti fissati per la potabilità. Oltretutto una operazione del genere si configurerebbe come frode ma, ancora di più, nella sostanza, aprirebbe alla possibilità di erogare qualsivoglia acqua inquinata, anche pesantemente, purchè opportunamente diluita, potendo arrivare al paradosso di smaltire indirettamente inquinanti attraverso gli organismi umani per tramite dell’acqua potabile.

La sussistenza del reato di disastro ambientale: la sussistenza dell’altro disastro e il pericolo per la pubblica incolumità di cui all’art. 434 c.p.

1. Sulla base di tali elementi di fatto, occorre interrogarsi sulla sussistenza del reato di disastro ambientale.

Come noto, da oltre vent’anni, la giurisprudenza tende a colmare la lacuna normativa consistente nella mancata previsione del reato di disastro ambientale attraverso il ricorso alla figura del disastro innominato di cui all’art. 434 c.p.1.

E’ altrettanto noto come la Cassazione penale abbia da tempo indicato i presupposti necessari e sufficienti per la configurazione del reato di disastro ambientale. Si tratterà, dunque, di verificare se tali requisiti sussistono – come ritiene Questa difesa – nel caso specifico.

1.1. In particolare, la giurisprudenza di legittimità ritiene che sia «… necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane »2: ciò, in quanto «questo delitto comporta un danno, o un pericolo di danno, ambientale di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica»3.

In applicazione di tale principio, si è ritenuto che «… pertanto, un’imponente contaminazione di siti mediante l’accumulo sul territorio e lo sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi hanno insita una elevata portata distruttiva dell’ambiente con conseguenze gravi, complesse ed estese ed hanno un’alta potenzialità lesiva tanto da provocare un effettivo pericolo per l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone».

L’orientamento descritto è stato, peraltro, confermato anche dalla Corte Costituzionale4.

2. Per quanto attiene i profili di pericolo per la pubblica incolumità, inoltre, si deve registrare un recente orientamento giurisprudenziale secondo cui « ...non rientra nella fattispecie colposa prevista dall’art. 449 c.p. … il concreto ed effettivo pericolo per la pubblica incolumità, essendo tale pericolo presunto dalla legge e non abbisognevole, quindi, di una prova specifica che ne accerti in concreto la sussistenza»5.

In termini simili si era espressa la Suprema Corte anche nel caso del Petrolchimico di Porto Marghera, asserendo che « per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli articoli 449 e 434 cod. pen. è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. A tal fine, l’effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione “ex ante”, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l’evento dannoso non si è verificato: ciò perché si tratta pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il quale richiede, per la sua sussistenza, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l’incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno»6. La sentenza da ultimo richiamata presenta anche ulteriori aspetti non privi di un certo interesse, laddove sottolinea come la prova del pericolo per la popolazione possa essere tratta anche dalla «decisione delle Autorità preposte alla tutela dell’igiene pubblica di predisporre il monitoraggio permanente del sito e, addirittura, anche un piano di evacuazione di tutta la popolazione residente” (36), oltre che dal senso di allarme diffusosi nella stessa popolazione e dal fatto che il pericolo per la pubblica incolumità era concretamente derivato anche dall’inquinamento del terreno e delle acque circostanti la discarica».

Anche successivamente, altre pronunce hanno confermato che «ai fini della configurabilità del delitto di disastro ambientale colposo, non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva: in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati a insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tali da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo»7.

Va peraltro evidenziato come esista una distinzione sostanziale tra il reato doloso e quello colposo, posto che nel primo caso è punito chi compie atti diretti a cagionare il disastro, mentre solo ai fini della configurazione della fattispecie colposa è necessario che il disastro si sia effettivamente verificato. La maggiore gravità dell’elemento volitivo rende dunque punibile anche il disastro potenziale, se doloso.

2.1. Tale interpretazione è, inoltre, coerente con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario nell’ambito dei reati ambientali punti dalle leggi di settore.

Il giudice di legittimità aveva, infatti, classificato la fattispecie di cui agli artt. 17 e 51 bis, D.Lgs. n. 22/1997 «come reato di pericolo presunto che si consuma ove il soggetto non proceda al corretto adempimento dell’obbligo di bonifica con le cadenze procedimentalizzate dall’art. 17»8. Tale qualificazione appare «più coerente con il sistema complessivo, delineato dall’art. 17 e soprattutto dal secondo comma, con i principi comunitari e nazionali in tema di danno ambientale e di centralità, in materia di rifiuti, della bonifica e messa in sicurezza dei siti, con la pregressa disposizione contemplata all’art. 50 secondo comma, di cui costituisce esplicita specificazione di una delle due tesi sostenute in dottrina nel vigore della predetta, e con analoga disposizione (art. 58 quarto comma D.Lgs. n. 152 del 1999), contenuta nella normativa di un settore affine (quello dell’inquinamento idrico) in una successiva disciplina, che ricalca quella dell’art. 51 bis in esame, dovendosi escludere dalla condotta cioè dall’elemento oggettivo del reato l’attività che ha cagionato l’inquinamento, che potrà anche essere accidentale senza violare l’art. 27 Cost., in quanto la stessa integra soltanto il fatto originante gli obblighi di bonifica e non il precetto citato. L’interpretazione seguita si presenta, poi, più rispondente ai principi di offensività e di proporzionalità della pena, perché, attraverso il rafforzamento penalistico dell’effettività delle misure reintegratorie del bene offeso, si fa assumere all’interesse pubblico alla riparazione una connotazione particolare, che permea di sé il precetto e diviene esso stesso bene giuridico protetto. L’esegesi avanzata è, infine, più consona alla limitatezza delle risorse ambientali ed all’irreversibilità di alcuni danni, a volte incommensurabili, ed ai connotati propri del diritto penale ambientale, nel quale l’apprestamento di una serie di reati di pericolo presunto “di scopo” e di un modello di tutela c.d. ingiunzionale risponde in via immediata alla tutela dell’ambiente».

Anche il Giudice delle leggi (in materia di legge “Galasso”) ha affermato che «deve ritenersi ammissibile, sul piano costituzionale, la previsione legislativa di reati di mero pericolo, qualora il bene tutelato, per il suo valore – come apprezzato dallo stesso legislatore (e nella specie vi è una espressa considerazione nel testo costituzionale tra i principi fondamentali: art. 9 della Costituzione) – esiga protezione anche da potenziali interventi di manomissione, conseguenti alla mancanza della previa verifica dell’amministrazione mediante intervento abilitativo per determinate attività o condotte. … in altri termini, il previo controllo amministrativo rispetto a determinate attività può essere giustificato per la rilevanza e la natura dell’interesse pubblico in gioco (…) quando il legislatore ritenga imprescindibile la verifica preventiva della compatibilità dell’attività privata con l’interesse pubblico tutelato … »9.

3 Ebbene, nel caso specifico:

  • alla luce dei dati emersi dalle indagini condotte dalla magistratura e confermate dai consulenti del Ministero dell’Ambiente, non può dirsi che il danno ambientale prodotto non risulti straordinariamente grave e complesso, o addirittura immane;

  • l’ISS ha inoltre confermato che sussiste un pericolo concreto per la salute umana dei cittadini che hanno vissuto e vivono nei pressi dei siti contaminati.

Segue: le condotte illecite e il nesso causale

1. A nulla rileva, in tale contesto, il fatto che le condotte si siano prodotte nel tempo: sul punto, anche il Tribunale di Venezia, nella nota sentenza resa all’esito del processo avente a oggetto il Petrolchimico di Porto Marghera, ha ritenuto che i requisiti di violenza e contestualità, richiamati dalle difese, siano «elementi specificativi e non costitutivi, tali essendo la gravità e la diffusività degli eventi nell’ambito di una comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo, che hanno ciascuna, con efficienza causale, realizzato con attività predisponente o aggravante la situazione di rischio»10.

Analogamente, i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che «…meno convincente appare l’affermazione della corte di merito secondo cui, per potersi configurare l’ipotesi di disastro innominato …, sia necessario il verificarsi di un macro-evento … Il disastro può anche non avere queste caratteristiche di immediatezza perché può realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, senza che si verifichi un evento disastroso immediatamente percepibile …. Del resto non tutte le ipotesi di disastro previste dal capo I del titolo VI del codice penale … hanno le caratteristiche cui la Corte di merito sembra fare riferimento (per esempio la frana – art. 426 – può consistere in spostamenti impercettibili che durano anni)»11.

2. Le indagini sin qui effettuate hanno altresì dimostrato la sussistenza del nesso causale tra le condotte contestate e i danni cagionati alla pubblica incolumità e all’ambiente: è stato, infatti, accertato che le cause dell’evento sono ascrivibili a condotte commissive e omissive sia precedenti al 1992 che successive a tale data, perpetrate sino al 2002.

La gravissima contaminazione del suolo, del sottosuolo e delle falde, infatti, era documentalmente nota agli imputati almeno dal 1992 : il certificato di analisi del Presidio Multizonale di Igiene e Prevenzione della ULSS di Pescara, datato 1992 e acquisito agli atti , avvertiva per le acque dei pozzi S.Angelo la presenza di sostanze organo-clorurate e, in applicazione dei limiti di legge allora vigenti, che somma delle concentrazioni delle stesse non rendevano tali acque idonee al consumo umano. Se il risultato di quelle analisi fosse stato preso nella minima dovuta considerazione, ne sarebbe derivato un complesso di conseguenze e di azioni che avrebbero portato alla non contaminazione delle acque potabili pure provenienti dal Giardino e a una indagine che avrebbe portato a scoprire le fonti inquinanti che invece sono state ipotizzate solo molti anni dopo, nell’agosto 2003, dalle indagini dell’ARTA sulla qualità delle acque sotterranee.

I dirigenti Montedison erano, peraltro, consapevoli della pericolosità della discarica Tre Monti sin dagli anni ’70 se è vero che, come emerso nel corso del dibattimento, quando si ipotizzò di iniziare a seppellire nel sito i primi quantitativi di rifiuti, si parlava di una operazione che avrebbe dovuto durare pochi mesi (sei al massimo), realizzando una sorta di “stoccaggio provvisorio”, in attesa di smaltire più adeguatamente i rifiuti in impianti di trattamento ubicati in stabilimenti dell’Azienda siti nel Nord.

Di fatto, però, è solo a partire dal 2003 che è stata avviata la caratterizzazione delle discariche nord e sono state realizzate le prime (e uniche) azioni di messa in sicurezza della falda superficiale e solo successivamente di quella profonda, inizialmente ignorata e non caratterizzata. Anche dopo l’avvio del presente procedimento e il sequestro dell’area effettuato nel 2007, peraltro, Edison si è rifiutata di intervenire anche solo per la caratterizzazione dell’area, costringendo il Commissario straordinario arch. Goio ad agire in via surrogatoria.

2.1. Questo stesso G.U.P. ha, del resto, già avuto occasione di precisare che le difese degli imputati e le consulenze tecniche da questi depositate, non offrono «nulla che permetta di escludere né il contributo alla contaminazione della mega-discarica (diversamente da quanto sostenuto dal consulente), né quello della contaminazione del sito dello stabilimento risalente nel tempo e attribuibile agli odierni imputati». Neppure esse hanno delineato «una ricostruzione realmente alternativa delle cause della contaminazione contestata»12.

2.2. In effetti, gli elementi forniti dall’accusa consentono di affermare che le contaminazioni denunciate sono da addebitarsi alle condotte illecite degli imputati, alla luce dei più moderni orientamenti sia della giurisprudenza che della dottrina. Si fa riferimento, in particolare, al metodo della sussunzione sotto leggi, ormai ampiamente utilizzato.

Come noto, con la sentenza del 200213, le Sezioni Unite della Cassazione hanno confermato che «nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità, tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità, razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità, lesiva».

In virtù del principio suggellato in tale pronuncia, innanzitutto, un comportamento può essere considerato causale quando costituisce una condizione contingentemente necessaria dell’evento, ossia «nel contesto di altre condizioni necessarie che, assieme, costituiscono la contingente condizione sufficiente»14.

In secondo luogo, la verifica in ordine al fatto che una condotta umana sia o meno condizione necessaria di un evento deve essere condotta attraverso un giudizio controfattuale che deve fondarsi sul sapere scientifico, il solo oggettivamente in grado di spiegare perchè l’evento lesivo si è verificato. Il principio, assai noto, ben era stato espresso dalla Cassazione nel processo relativo al disastro di Stava: «il giudice avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche – ove non disponga di leggi universali – dirà che è “probabile” che la condotta dell’agente costituisca, “coeteris paribus”, una condizione necessaria dell’evento; probabilità che altro non significa se non “probabilità logica o credibilità razionale”, la quale deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità (in applicazione dei suddetti principi, è stata nella specie confermata la fondatezza della conclusione della sentenza di secondo grado che, con riferimento al ” disastro di Stava”, ne ha individuato la causa penalmente rilevante nel comportamento, in forma attiva e omissiva, di chiunque ha concorso e contribuito nel tempo alla costruzione del bacino superiore, nelle varie fasi dell’impostazione, prosecuzione, sopraelevazione ed ampliamento)»15.

3. Ebbene, nel caso di specie, sussistono tutti i requisiti indicati dalla giurisprudenza.

Considerando, infatti, che il piezometro PzF1 è situato immediatamente a valle idrogeologica della discarica Tre Monti e 2,5 km circa a monte del Campo Pozzi e tenendo conto della direzione di movimento delle acque sotterranee dalla discarica verso il campo pozzi, da un punto di vista delle concentrazioni, è stato accertato dai consulenti della Procura e confermato da quelli nominati dalle parti civili, oltre al fatto che, per la particolare natura dei contaminanti rinvenuti, essi sono riconducibili esclusivamente alle attività svolte nello stabilimento, che:

  • le acque del PzF1 sono le più contaminate tra quelle analizzate nella porzione superficiale di acquifero appartenente alla valle del Pescara;

  • le acque del PzF1 sono contaminate dalla discarica Tre Monti;

  • le acque del PzF1 si muovono dalla discarica Tre Monti verso i pozzi Sant’Angelo;

  • nei pozzi Sant’Angelo le concentrazioni sono ordini di grandezza inferiori a quelle del PzF1.

Da questi dati, come già rilevato nella memoria del 3.7.2010, si deduce che:

  • -il PzF1 è il principale “testimone” della contaminazione del Campo Pozzi;

  • la discarica Tre Monti è la principale “imputata” della contaminazione del PzF1.

3.1.Deve dunque riconoscersi, in primo luogo, che le condotte degli imputati – così come ricostruite e descritte dal Pubblico Ministero e riassunte nella contaminazione storica del suolo, del sottosuolo e delle falde, sotto le discariche nord, sotto lo stabilimento e sotto la discarica Tre Monti – hanno costituito condizione necessaria e sufficiente per il determinarsi del disastro ambientale in oggetto.

3.2. Dall’altra, è certo, proprio alla luce dei dati scientifici e tecnici emersi nel corso delle indagini e dell’udienza preliminare, che, senza le condotte degli odierni imputati, l’evento dannoso non si sarebbe verificato.

Proprio a tal fine, si richiama nuovamente l’ordinanza emessa da Codesto Giudice, laddove appunto evidenzia che le difese degli imputati non hanno delineato «una ricostruzione realmente alternativa delle cause della contaminazione contestata»16.

Segue: il profilo soggettivo

1. Sotto il profilo soggettivo, nonostante il noto dibattito circa la configurabilità del dolo eventuale in fattispecie di disastro, nel caso di specie si ritiene possa essere riconosciuta la natura dolosa del reato contestato agli imputati, la cui condotta, tipica secondo la descrizione contenuta nell’art. 434 c.p., è stata adottata con la consapevolezza della sua idoneità a creare la situazione di pericolo, per l’ambiente e l’incolumità pubblica.

2. Neppure colgono nel segno le difese degli imputati, laddove fanno riferimento all’assenza di normativa di settore al momento dei fatti.

Come è noto, infatti, la giurisprudenza amministrativa e penale consolidata in tema di reati permanenti ha riconosciuto l’applicabilità degli obblighi di cui all’art. 17 D.lgs. 22/1997 (ora D.lgs. 152/2006) anche alle contaminazioni storiche, quindi anche a quelle realizzate precedentemente all’entrata in vigore del D.Lgs. 22/1997, ravvisando la continuazione dello stato di responsabile sin tanto che l’inquinamento permane e non ne vengono rimosse le cause e gli effetti.

Secondo questa giurisprudenza, quasi unanime, gli obblighi di bonifica per un inquinamento storico ma ancora sussistente gravano sempre sul responsabile della contaminazione, anche se in capo a esso non permane più la disponibilità del bene.

La disciplina sulle bonifiche, infatti, è diretta a «risanare qualunque sito inquinato, purché sia tale al momento della sua entrata in vigore» : la situazione di inquinamento deve dunque essere considerata come fenomeno permanente fintantoché non venga riportata nei limiti di accettabilità. In tal senso, secondo tale giurisprudenza, non può neppure definirsi «retroattiva» la normativa, dovendo piuttosto giudicarsi perduranti e in atto i livelli di inquinamento, che necessitano dell’adozione delle misure stabilite per legge.

L’argomentazione appare, del resto, corroborata dall’analisi della stessa disciplina di settore. L’art. 17 D.lgs. 22/1997 e il D.M. riguardano, infatti, (anche) situazioni di inquinamento pregresse: basti pensare all’anagrafe dei siti da bonificare che, evidentemente, disciplina una situazione che già esiste da diversi anni nel nostro Paese oppure a quanto previsto dall’art. 2, lett. c), del decreto ministeriale che espressamente fa riferimento alle «attività antropiche pregresse».

2.1. In tale contesto si inserisce, ad esempio, l’ordinanza cautelare emessa dal T.A.R. Lombardia, Brescia17, nel caso “Caffaro” (che va ormai assumendo i connotati di un disastro ambientale fra i più rilevanti a livello nazionale, forse più grave dell’incidente di Seveso per le ricadute sulla salute pubblica e la diffusività della contaminazione). Nella caso di specie, l’Autorità comunale era intervenuta imponendo l’esecuzione alla Caffaro di un piano di caratterizzazione delle rogge che attraversano l’area, di circa 210 ettari, gravemente contaminata da PCB, diossine e mercurio, in cui opera dai primi del Novecento lo stabilimento cittadino (e dove, nel corso del secolo, hanno operato anche industrie metallurgiche e d’altro tipo che tali sostanze producevano, quale residuo di lavorazione o delle quali facevano direttamente uso). In tale situazione, particolarmente complessa dal punto di vista dimensionale (le rogge hanno, con gli anni, sparso gli inquinanti in zone sino a 5 km a sud dello stabilimento) ed evidentemente frutto di condotte succedutesi in tempi anche molto lontani e, forse, anche parzialmente ascrivibili a soggetti diversi, il T.A.R. ha ribadito essere sufficienti «almeno nella fase iniziale», al fine di imporre obblighi di salvaguardia delle persone e dell’ambiente, indici di riferibilità (nel caso di specie ritenuti sussistenti) della situazione di fatto a un soggetto particolare (appunto la società Caffaro), ferma restando «la necessità di una più completa verifica delle responsabilità una volta acquisiti ulteriori elementi di conoscenza» .

Già in precedenza, peraltro,il T.A.R. Lombardia, Milano18, aveva affermato che «la nuova normativa … è diretta a risanare qualunque sito inquinato purché sia tale al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo: infatti la situazione di inquinamento va considerata come fenomeno permanente fintanto che non venga riportata nei limiti di accettabilità. In questo senso non può definirsi retroattiva la normativa, ma piuttosto vanno giudicati perduranti e in atto i livelli d’inquinamento che necessitano dell’adozione delle misure ivi stabilite». Nella fattispecie esaminata dal Tribunale, la condotta dalla quale era derivato l’inquinamento era stata posta in essere prima dell’entrata in vigore del D.Lgs n. 22/1997 (intorno al 1993) ed era risultata ascrivibile al dante causa del nuovo proprietario dell’area da bonificare, destinatari entrambi di un’ordinanza-diffida ex art. 8 D.M. n. 471/1999. Dopo aver chiaramente precisato che la nuova normativa non può definirsi retroattiva, ha valutato – incidentalmente – la sussistenza del reato di cui all’art. 51 bis ammettendone, nella sostanza, l’applicabilità anche ai casi in cui la condotta, che aveva originato l’inquinamento, fosse di molti anni precedente l’entrata in vigore del decreto Ronchi.

Alla stessa conclusione era giunto altro T.A.R.19, in una vicenda nella quale si contestava una condotta posta in essere prima del 1983. Secondo il Collegio, « il D.Lgs. 22/1997 e il D.M. 471/1999 trovano applicazione per qualunque situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo, giacché l’inquinamento dà luogo ad una situazione di carattere permanente che perdura fino a che non vengono rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati sono riportati entro i limiti normativamente ritenuti accettabili, indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica» .

2.2. Anche la Cassazione penale ha espresso opinioni analoghe. Nota è, in particolare, la sentenza resa nel procedimento Pizzuti20, nella quale si statuisce che «l‘art. 51 bis del D.Lgs. n. 22/1997 contempla un reato omissivo di pericolo presunto, che si consuma ove il soggetto non proceda all’adempimento dell’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentalizzate dall’art. 17 del medesimo decreto. L’inquinamento o il pericolo concreto di inquinamento debbono essere inquadrati nei “presupposti di fatto” e non negli elementi essenziali del reato; questo consente l’applicazione della predetta norma anche a situazioni verificatesi in epoca anteriore all’emanazione del regolamento (D.M. n. 471/1999 in vigore dal 16 dicembre 1999) e ciò non solo nell’ipotesi in cui il soggetto venga diffidato dal comune, ai sensi dell’art. 17». In tale occasione, la Corte ha chiarito che «i presupposti del reato – al contrario degli elementi essenziali – assumono rilevanza ai fini della colpevolezza, solo in quanto siano noti all’agente e, pertanto, ciò che rileva è che essi devono effettivamente sussistere, preesistere od essere concomitanti alla condotta di reato».

Dalla considerazione che i presupposti del reato, a differenza degli elementi costitutivi, devono soltanto sussistere ed essere noti all’agente, dunque, la Corte fa discendere la possibilità di un’imputazione ai sensi dell’art. 51 bis ogniqualvolta che chi abbia cagionato l’inquinamento, anche se con una condotta accidentale e antecedente all’emanazione del D.M. n. 471/1999, abbia conoscenza, ovvero sussista in capo a questi la conoscibilità secondo l’ordinaria diligenza, del pericolo di inquinamento cagionato. Vertendosi nell’ipotesi di pericolo, detta conoscibilità può essere accertata, secondo la Corte, anche sulla base di elementi presuntivi, scaturenti dall’id quom prelumque accidit, tra cui viene inclusa la natura delle pregresse attività industriali condotte sul sito. Si afferma quindi la possibilità di una responsabilità penale per omessa bonifica in capo a chiunque abbia cagionato il pericolo concreto e attuale di inquinamento prima dell’entrata in vigore delle norme regolamentari, anche in assenza di un preventivo provvedimento amministrativo di diffida ex art. 17 comma 3.

2.3. All’interpretazione secondo cui l’ordine di bonifica non potrebbe essere impartito a fronte di una condotta posta in essere prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 22/1997, si potrebbe inoltre opporre l’operatività dell’art. 18 L. 349/1986, a norma del quale già «qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato».

2.4. Si potrebbe, invero, giungere alla medesima soluzione anche attraverso un percorso logico e giuridico differente: responsabile, ai fini che qui interessano, potrebbe essere considerato anche quel soggetto che, prima dell’entrata in vigore della legge-quadro, abbia causato l’inquinamento violando una specifica disposizione di legge posta a salvaguardia dell’ambiente21.

In tal modo – pur continuando a escludere la responsabilità in capo a coloro che, prima del decreto Ronchi, abbiano provocato situazioni di inquinamento senza colpa – sarebbe consentito imporre l’obbligo di bonifica anche nei confronti di chi, nello stesso momento storico, abbia tenuto un comportamento contra jus. In quest’ottica, è quindi sufficiente il riferimento alle norme vigenti all’epoca in cui il fatto è stato commesso per individuare il comportamento illegittimo tenuto dall’agente e per affermarne la responsabilità – e quindi l’obbligo di bonifica – senza attendere gli esiti di un accertamento di carattere giudiziale.

2.5. Anche alla luce di tali indicazioni, si ritiene che gli odierni imputati non possano sottrarsi alle loro responsabilità, anche di carattere penale, in ordine all’evento di disastro cagionato.



In ragione delle argomentazioni svolte, in fatto e in diritto, si ritiene che Codesto Giudice ben possa disporre il rinvio a giudizio degli imputati, quanto meno in relazione al capo di imputazione sub B).

Milano/Pescara, 2 novembre 2010.

avv. Veronica Dini avv. Susanna Della Torre

1 Cass. Pen., se. IV, 23 maggio 1986

2 Cass. Pen., sez. III, 16 gennaio 2008, n° 9418. In senso conforme: Cass. pen., sez. IV, 20 febbraio 2007 n. 19342, Cass. pen. n. 40330 del 2006, Cass. pen. n. 11771 del 1997

3 Cass. Pen., sez. III, 16 gennaio 2008, n° 9418

4 Corte Cost., 1 agosto 2008, n° 327

5 Cass. Pen. Sez. III, 6 febbraio 2008, n° 13947

6 Cass. pen., sez. IV, 20 febbraio 2007 n. 19342. In precedenza, il principio era stato espresso da Cass. Pen., sez. IV, 3 agosto 2000, n° 5820

7 Cass. Pen., sez. IV, 9 marzo 2009, n° 18974

8 Cass. Pen., Sez. III, 28 aprile 2000 – 7 giugno 2000, n° 1783

9 Corte Cost. ord. 4 maggio 1998, n. 158,

10Trib. Venezia, 22 ottobre 2001

11 Cass. Pen., 17 maggio 2006, n° 4675

12 Ordinanza 28 giugno 2010

13Cass. Pen., sez. un., 10 luglio – 11 settembre 2002, n° 30328

14 F. STELLA, Giustizia e Modernità, Giuffrè Editore, 2003, 340

15Cass. Pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, n°4793

16 Ordinanza 28 giugno 2010

17 T.A.R. Lombardia, Brescia, ordinanza 16 dicembre 2003, n. 1190

18 T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 13 febbraio 2001, n. 987

19 T.A.R. Trieste, 27 luglio 2001, n. 488

20Cass. Pen., sez. III, 7 giugno 2000, n. 1783

21L. PRATI, La tutela dell’acquirente nella compravendita dei siti gravati da oneri di bonifica, in Ambiente & Sviluppo, 2000, n. 5, p. 408;