Alessandro Pavone nel Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise

L’intervento di Alessandro Pavone nel Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise

Fonte: Artribune

IL PERCORSO C 2 ALLE PENDICI DEL BOSCO DI FAGGETE, ELETTO PATRIMONIO UNESCO NEL CONTESTO DEL PARCO NAZIONALE DI ABRUZZO, LAZIO E MOLISE, SI ARRICCHISCE DELL’OPERA DI ALESSANDRO PAVONE, “UN TEMPO È STATO”, PER LA TERZA EDIZIONE DI ARTEPARCO. E SI AGGIUNGE ALLE INSTALLAZIONI DELL’ARTISTA-DESIGNER MARCANTONIO E DI MATTEO FATO.

Giovanni Cannata, presidente del Parco Nazionale di Abruzzo Lazio Molise, introducendo la nuova edizione di Arteparco si è soffermato sull’importanza da assegnare alle idee di prosperità e salute. L’obiettivo è uscire rafforzati da una situazione di caduta libera, partendo dalla consapevolezza delle risorse del parco.
Alessandro Pavone (Trento, 1973) racconta come l’opera si sia modificata in rapporto al contesto site specific: “Pensavo di imbattermi in un faggio caduto per poterlo riportare in vita, ma non ho trovato un legno adeguato, ho pensato così di utilizzare un larice caduto durante la Tempesta di Vaia nel 2018 in Trentino, vicino alle mie terre di origine in Folgaria. La mano è metafora della ciclicità della vita, il tronco marcirà e nascerà un nuovo alberello. Piantare un albero ad agosto sarebbe stato assurdo, così sarà compito dei bambini a novembre: una mano che si prende cura della vita passa leggera“.
Dopo aver osservato l’installazione, ne abbiamo discusso con lui.

INTERVISTA AD ALESSANDRO PAVONE

Tua madre è trentina e tuo padre pugliese. Come influiscono queste radici sul tuo lavoro?
Durante l’Accademia ho scelto di abbandonare temporaneamente gli studi per seguire la realizzazione di uno spettacolo di Robert Wilson. Ne ero affascinato. Mi sono diplomato con una tesi incentrata sull’illuminotecnica nel suo lavoro. Ho avuto modo di seguirlo a New York e poi a Long Island, al Watermill Center. Successivamente ho conosciuto la curatrice Marie Claude Beaud, la quale mi ha coinvolto nel team del Lussemburgo per la Biennale di Venezia. Ho seguito il padiglione lussemburghese per due edizioni della Biennale. Nel 2003 abbiamo vinto il Leone d’oro con il lavoro di Su Mei Tse.
Subito dopo, in un mese ho cambiato vita. Sapevo di non essere sulla mia strada. Come spesso accade quando si teme di perdere l’occasione di essere felici e in realtà si finisce a essere preda della propria ambizione, non mi divertivo. Mi sono spostato a vivere in montagna, ho recuperato una vecchia motosega. Ho ritrovato la fisicità di cui ero orfano. Successivamente ho lavorato con il marmo, il granito e il bronzo.

Da quindici anni vivi a Folgaria, dove sei tornato dopo aver vissuto a New York. Come vivi il legame con il territorio?
Abito in una casa ai margini del bosco. Mi sposto in Italia e all’estero molto spesso. Folgaria è una buona base. Trovo facilmente tutto il materiale di cui ho bisogno. Posso fare polvere e rumore.
Avere la montagna sopra casa mi permette di isolarmi serenamente con facilità. Gli alberi, le salite più delle discese, i burroni, e gli orizzonti: ne ho bisogno. New York come ogni città e sempre lì. Basta prendere un aereo.

Alessandro Pavone, Un tempo è stato, 2020. Arteparco. Photo Valentino Mastrella
Alessandro Pavone, Un tempo è stato, 2020. Arteparco. Photo Valentino Mastrella

Cosa puoi raccontarci della tua scoperta del bronzo alla Fonderia Battaglia?
È stata un’esperienza stupenda. Ho lavorato sul concetto di armatura, mi ha portato a sviluppare una tecnica nuova utilizzando la struttura della scultura per ricavare dei canali di colata. Mi interessano la ciclicità e l’onestà del processo.

E della tua stima verso la figura di Adolf Wildt?
Ho molto rispetto per lo spirito d’abnegazione. Mi piacciono gli artisti che non trovano pace. Nella sua opera, oltre a risultare evidente la straordinaria conoscenza della tecnica e del materiale, è costante il tormento. Guardi un volto di donna raffinatissimo nei dettagli, delicato, levigato maniacalmente, eppure vedi le belve contenute sotto pelle che si agitano attorno all’ossessione dell’autore.

Perché hai scelto di realizzare il palmo di una mano legata all’avambraccio?
Volevo una forma distesa, che ricordasse l’albero abbattuto che ho trovato. Volevo una tensione ad arco che esprimesse una tensione interna. Volevo che il polso fosse la chiave di volta dell’arco. La contrattura dei tendini nel polso scompare nelle ultime falangi delle dita. È un percorso emotivo e temporale raccontato esteticamente sulla sua lunghezza.

Le mani comunicano più di altre parti del corpo?
Osservando molti dipinti e sculture dei maestri si scopre sempre una grande espressività nelle mani, a volte maggiore di quanto non esprimano i volti. Io penso all’espressività del corpo come a un alfabeto assunto inconsciamente. Per imitazione.

Cosa hai portato nella tua arte dell’esperienza al seguito di Robert Wilson?
Riconosco d’essere ossessionato dal dettaglio. Ricordo che con Wilson abbiamo passato giornate intere a spostare di pochi centimetri una sedia sul palcoscenico vuoto. Non capivo. Ho imparato a guardare il volume di un palcoscenico riempito di vuoto e a percepirlo come fosse un elastico in tensione.

Alessandro Pavone, Un tempo è stato, 2020. Arteparco. Photo Valentino Mastrella
Alessandro Pavone, Un tempo è stato, 2020. Arteparco. Photo Valentino Mastrella

Cosa significa la mano per Alessandro Pavone?
Pressione e resistenza sono le azioni che generano la scultura. I concetti di pieno e vuoto non posseggono la dinamica necessaria allo scultore. Sono condizioni egualmente potenti che descrivono staticamente lo stesso spazio. Opponendosi alla luce mostrano la scultura quando già formata.

Cosa comunica la mano ricavata dal larice caduto nella tempesta di Vaia oltre e rispetto alle mani realizzate da artisti che hanno lasciato un’impronta nella storia, da Michelangelo a Dürer, da Leonardo da Vinci a Schiele, da Escher a Munari?
Nella mia scultura, la mano è davvero una mano. Non ha funzione. Non è una poltrona, un lampione, un vaso. La mano è davvero un pezzo di corpo, mantiene la funzione originaria dell’arto. Per certi versi la mano è molto simile allo sguardo. È esatta espressione dell’animo, del sentire, del pensiero.
Per vedere il mio volto ho bisogno di uno specchio mentre posso vedere le mie mani al lavoro. Le ho sempre a disposizione. Sono un autoritratto che si esegue direttamente mentre le stesse sono al lavoro per rappresentarsi. In questo posso ricordare le mani di Escher. L’autoritratto si trasforma in racconto.

Come ti aspetti che la tua scultura venga accolta dai visitatori?
Dopo aver installato la mano nel bosco, ho ricevuto alcune foto di persone accovacciate nel palmo o in piedi sul polso o sedute sulle dita. Non posso negare d’aver provato la sensazione che fossero su una mia terza mano che mi rifletteva completamente. La sensazione è stata completamente fisica.

La tua scultura sembra respirare nell’atmosfera, cosa nasconde?
La danza e il gesto. Il movimento del polso e delle dita trascende l’istintiva gestualità neurale per divenire danza. Esiste l’intenzione del muoversi nello spazio secondo geometrie immaginate e proiettate volutamente per raccontare ciò che avviene nell’animo. Usare il corpo per parlare di qualcosa che è tutt’altro che fisico. Immagino il bosco di faggi come un palcoscenico in cui, attraverso la danza, uso il tronco di braccio per esprimere una condizione emotiva e lontana dagli impulsi fisici e dai bisogni del corpo.
Spesso mi sento vicino al lavoro di un coreografo. Il corpo della scultura occupa lo spazio con le stesse regole con cui la danza lo attraversa, lo taglia, lo misura. La scultura è molto simile alla tecnica dell’acquerello. Non è questione di peso per metro cubo. La macchia dell’acquerello è irreversibile come il colpo di scalpello.

‒ Giorgia Basili